
H: Tesoro, dove hai preso questo cane?
B: E’ il regalo di un’amica…
H: Tesoro, dove hai preso questo cane?
B: E’ il regalo di un’amica…
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Vladimir Majakovskij conosce nel 1915, all’età di 22 anni, Lilja Brik, moglie del critico Osip Brik, suo amico e compagno di battaglie, e se ne innamora.
Diventa un ospite fisso della coppia, dedica le sue poesie a Lilja, per piacerle va a farsi curare i denti e si veste con eleganza; alla fine si installa addirittura in casa dei due.
Inizia così tra Majakovskij, Lilja e Osip un incredibile rapporto a tre che continuerà per molti anni.
Per Majakovskij Lilja sarà il solo grande amore della sua vita, ma Lilja amerà sempre e solo il marito, tanto che dopo la sua morte dirà: «Quando Majakovskij si è sparato è morto un grande poeta, ma quando è morto Osip sono morta anch’io”
Vladimir e Lilja si scrivono molte lettere.
Quelle di lui sono febbrili, drammatiche, quelle di lei trattenute e sbrigative.
In una lettera Vladimir le scrive:
“In te non c’è amore per me, in te c’è amore in genere, per tutto. Vi occupo un posto anch’io ( forse persino importante), ma se scompaio, allora verrò fatto fuori, come una pietra da un fiume, mentre il tuo amore nuovamente riemergerà su tutto il resto”
Un amico comune, il poeta Nikolai Aseev descrive così il menage a tre del poeta con i coniugi Brik:
“Lui fuggiva la quotidianità e le sue forme tradizionali, tra cui la più importante era la famiglia… E trovò una famiglia in cui, come un cuculo, volò per sua scelta, senza però scacciare nè danneggiare gli inquilini”.
Nella sua lettera di commiato scritta pochi istanti prima di uccidersi, Vladimir scrive:
«A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non e’ una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia e’ Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio.[…] Come si dice, l’incidente e’ chiuso. La barca dell’amore si e’ spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici».
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La puttana, ardente monarchica, fonda un circolo letterario e diventa senatrice.
L’ingegnere scopre la pittura e ci si rovina.
Un vecchio ritorna bambino e si innamora della maestra a cui lo affidano..
….Tutti- e questo è il bello del romanzo- sono infine felici, perchè la felicità e nella trasformazione, nel transito.”
Come spesso succede, Flaiano coglie nel segno.
E’ importante viaggiare, non arrivare.
Truman Capote nel suo ultimo romanzo, ” Preghiere esaudite”, ci ricorda la massima di Santa Teresa d’Avila:
“Sono state versate più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non esaudite”
Come a dire : cosa ci resta della vita, se smettiamo di desiderare?
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Tempo fa sono andato da un vecchio artigiano, qui a Venezia, per comprare una credenza dell’Ottocento.Lui mi porta in un grande magazzino pieno di mobili lerci e malandati e mi dice: “Scelga quello che vuole; non badi a come lo vede, glielo restauro e glielo consegno come se fosse nuovo”.
.
Poi mi racconta questa curiosa storia:
“All’inizio degli anni 60 una vecchia signora mi chiama per chiedermi di sgomberare di una decina di vecchi mobili una grande soffitta
Porto i mobili in questo grande magazzino e li lascio qui per vari anni. Restauro un mobile, anche a distanza di venti, trent’anni da che ce l’ho in casa e lo faccio solo se c’è qualcuno che me lo chiede.
Passano venticinque anni e viene a trovarmi la nipote della vecchia signora.
I mobili antichi sono tornati di moda e lei, che sta per sposarsi, ne vorrebbe acquistare alcuni.
L’accompagno nel mio magazzino dove sono stivati, come vede, più di 500 mobili e, con mia grande sorpresa, la ragazza sceglie con convinzione, uno dopo l’altro, proprio i dieci mobili dei quali la nonna aveva voluto disfarsi vent’anni prima.
Mobili che la ragazza non aveva mai visto, essendo usciti dalla casa della nonna prima della sua nascita”
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Si chiama Ofelia Queiroz, ha diciannove anni, è fresca, carina, spigliata e, contro la volontà dei suoi genitori, ha deciso di trovare un impiego.
Conosce il francese, sa scrivere a macchina e sa anche qualche parola di inglese.
Viene assunta in una piccola azienda commerciale.
Il primo giorno conosce un collega.
E’ un uomo vestito tutto di nero, con gli occhiali, un cappello con la falda alzata ed una cravatta a farfalla.
E’ Fernando Pessoa, il più grande poeta portoghese del ‘900, ed ha già perso la testa per lei.
Iniziano così le schermaglie amorose fra i due due. E’ quello che in portoghese si chiama il namoro, il periodo in cui si manifesta quell’attrazione reciproca che poi darà luogo al fidanzamento vero e proprio
Il poeta è di diversi anni più vecchio, ma non si sottrae al gioco degli sguardi, dei baci in punta di labbra tra una scrivania e all’altra, dei bigliettini.
I due si scambiano anche una infinità di lettere d’amore.
Nel dicembre del 1920 Ofélia decide di mettere un punto, stanca di essere presa in giro dall’insicurezza surreale del poeta.
“Una donna che crede alle parole di un uomo, non è che una povera idiota; se un giorno vedeste qualcuno che finga di portare alle labbra una bevanda avvelenata a causa sua, rovesciategliela velocemente in bocca perchè libererà il mondo da un impostore in più.”
Conclude così la sua ultima lettera.
D’altronde quale donna non diffiderebbe degli slanci amorosi di chi ha scritto una poesia come quella che riporto qui sotto?
Tutte le lettere d’amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
ridicole.
Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
come le altre
ridicole.
Le lettere d’amore, se c’è l’amore
devono essere
ridicole.
Ma, dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d’amore
sono ridicoli.
Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d’amore
ridicole.
La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere d’amore
ad essere
ridicoli.
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Sistemo le foto fatte nel corso dei miei viaggi e mi capitano tra le mani quelle fatte a Valaparaiso qualche anno fa.
Città “accesa, spumeggiante, dissoluta” dal “luccichio magnetico”, diceva Neruda.
A me, molto più banalmente, Valparaiso è sembrata soprattutto la città delle scale.
Dritte, storte, larghe, strette, brevi e lunghissime, coprono la città come un manto di rughe sul corpo di una vecchia signora.
Assomiglia a certe nostre città del sud: vecchi palazzi del primo Novecento assediati da abitazioni più recenti e ordinarie, una quantità incredibile di negozietti di alimentari, di frutta e verdure, di ferramenta, di vestiti, che fronteggiano ostinatamente la concorrenza dei rutilanti supermercati della periferia.
Traffico spedito e caotico, giardinetti con le palme, in qualche angolo ricorda Trapani.
Indimenticabile, invece, e folgorante, la casa di Neruda, “la Sebastiana”.
Cinque piani, due stanze per piano.
In ogni stanza grandi finestre che guardano l’oceano: sembrano quadri dai colori teneri e violenti
.
Dappertutto , un po’ come nelle poesie di don Pablo,nelle quali affiorano continuamente immagini insolite e colorite, oggetti sorprendenti e bizzarri: vecchie polene, binocoli, antichi forzieri di legno, bussole, grandi conchiglie.
Ovunque si sente l’impronta di un poeta non abituato ad appaltare all’Ikea la definizione del proprio habitat.
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C’è in Kafka una grande avversione per qualsiasi tipo di fisicità.
L’educazione repressiva e gli atteggiamenti ansiosi del padre (v. il bellissimo “Lettera al Padre”) hanno creato in lui un gigantesco senso di colpa, che si riversa sulla sfera dell’eros.
Il pensiero di avere un rapporto fisico con una donna lo atterrisce, ma lo turba enormemente anche il suo essere un uomo socialmente monco e inutile, incapace di accoppiarsi e di avere una famiglia.
Il vero polo d’attrazione della sua vita è la scrittura, l’attività cui vorrebbe dedicarsi in maniera assoluta e monacale
Sente, tuttavia, che la scrittura non può essere, come vorrebbe, il centro della vita, ma soltanto un piacere da concedersi dopo che si è dato spazio al dovere.
Cioè al suo lavoro di funzionario di una compagnia di assicurazioni.
Cioè ai suoi tentativi di approdare ad una vita “normale”
Il dramma di Kafka è proprio questo.
L’amore gli appare sia la possibilità di arrivare finalmente nella Terra di Canaan, quella dove abitano gli uomini e le donne reali che si accoppiano e procreano , sia il momento della definitiva perdizione e rovina, l’addio crudele ad una missione che sente molto più congeniale alle sue attitudini e alle sue forze, quella della scrittura.
Due sono i grandi amori della sua vita.
In entrambi i casi si tratta di donne che vivono a parecchie centinaia di chilometri da Praga: Felice abita a Berlino, Milena a Vienna
In entrambi i casi il rapporto con l’amata ha il suo momento di massimo pathos nella scrittura. In quegli epistolari , c’è uno slancio infinito, un’immaginazione incontenibile, molto più grande di quella messa in opera nei romanzi .
Kafka vive esclusivamente nell’attesa di scrivere alla donna che ama e di riceverne le lettere.
Quando il rapporto, per l’ insistenza della donna amata, si avvicina ad una qualsiasi forma di stabilità e concretezza, lui preferisce troncare.
In entrambi i casi è la malattia che lo consuma la causa apparente della rottura.
In realtà quello che lo spinge a chiudere questi rapporti è il desiderio di tornare a se stesso, di ritrovarsi senza fardelli sia come uomo sia come scrittore.
Un’ultima considerazione.
Il complesso di colpa, proprio per i prezzi che ha saputo esigere nella vita di Kafka, ha limitato enormemente la sua produzione letteraria: restano alcuni splendidi racconti e tre romanzi, di cui uno solo portato a termine.
Ma, senza quel mostruoso senso di colpa, che ne sarebbe dell’opera di Kafka?
Lo considereremmo, come lo consideriamo oggi, uno dei grandissimi del Novecento?
Penseremmo a lui come ad uno scrittore attualissimo, nonostante il secolo che è passato da quando ha scritto i suoi libri?
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