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Quando Dario Fo ci faceva credere che le Brigate Rosse erano un’invenzione della polizia..

Cosa sono stati gli anni di piombo per quelli che li hanno vissuti in maniera cosciente e informata, cioè essendo desiderosi di apprendere i fatti e di comprenderne le ragioni?

Sono stato un periodo convulso, pieno di avvenimenti inquietanti, del quale ricordiamo benissimo il clima: le discussioni ideologiche sempre vicine a sfociare, in determinati ambienti, nello scontro fisico, le polemiche roventi sui giornali, lo stato d’allerta e i dispiegamenti massicci delle forze dell’ordine.

Quelli come me che sono nati all’inizio degli anni ‘50 hanno poi una memoria molto particolare di quel periodo, che è stato lo sfondo temporale della loro formazione culturale e politica.

C’era una grande volontà di capire in quegli anni. E capire era difficile, perchè, soprattutto nella fase iniziale della nascita e dell’affermarsi dei primi movimenti terroristici, di ogni avvenimento esistevano più versioni.

E non era semplicemente una questione di sfumature, tra una versione e l’altra c’erano anni luce di distanza.

Il libro inchiesta di Luca Telese “Cuori neri” ( Sperling & Kupfer) ci dà un’idea abbastanza precisa di questa distanza.

Telese ha scelto uno dei tanti capitoli delle cronache di quegli anni, concentrando la sua attenzione su 21 persone di destra, o considerate tali, uccise in quegli anni.

Mitizzati come martiri dai loro camerati, demonizzati dai loro avversari politici, dimenticati o ricordati in maniera confusa e distratta da tutti gli altri.

I fratelli Mattei , bruciati vivi nel rogo di Primavalle, i militanti missini Mazzola e Girallucci freddati dalle Br nella sede del partito  di Padova, lo studente  Sergio Ramelli ucciso a sprangate a Milano : sono nomi che ricordiamo bene, vicende che ci hanno colpito , che abbiamo seguito attentamente sui giornali, cercando di capire come si erano svolti i fatti, dove stessero i torti e dove le ragioni.

Telese racconta un solo versante della storia di quegli anni ed alcuni hanno ritenuto che questo fosse un limite del libro.

L’accusa mi sembra ridicola: lo scibile per quanto riguarda quegli anni è talmente vasto da imporre delle scelte.

E la scelta di Telese mi sembra interessante perchè, nel raccontare queste vicende apre uno squarcio su un tema non troppo frequentato per motivi più che comprensibili: quello della sistematica controinformazione della sinistra su molte di queste vicende.

L’abilità di quelle mistificazioni unita al prestigio di cui godevano alcuni dei mistificatori ( alcuni in buona fede, altri in mala fede) ha fatto sì che noi pur attenti lettori per molti anni non avessimo che idee confuse e distorte su quanto era accaduto.

Ma è meglio fare degli esempi.

Il primo riguarda Il rogo di Primavalle. Non si erano ancora raffreddate le ceneri di quel rogo che già circolavano le voci che attribuivano la vicenda ad una faida interna tra opposte fazioni dell’Msi. Achille Lollo, militante di Potere Operaio, che anni dopo confesserà di avere fatto parte del commando omicida, diventa una specie di Dreyfus ( quante volte abbiamo letto sui muri, a caratteri cubitali, la scritta “Lollo libero”?)

Franca Rame scrive addirittura una lettera al presidente della Repubblica Leone che esordisce così: “ E di Achille Lollo cosa mi dice presidente? Ci sono decine di assurdità sulla incriminazione di Lollo e dei suoi compagni”.

Probabile che l’attrice fosse in buona fede. Ma sicuramente in malafede erano i vertici di Potere Operaio che alimentarono e diffusero i dubbi sulla vicenda.

Ecco la squallida confessione che, con accenti di cinismo piuttosto che di vergogna, ci fa, molti anni dopo, Lanfranco Pace, dirigente dell’epoca di Potere Operaio approdato successivamente alla corte di Giuliano Ferrara al Foglio:

“Avremmo potuto consegnarli alla magistratura, chiedere perdono alla famiglia Mattei, all’Msi, a Giorgio Almirante…Avremmo potuto farlo, ma non lo facemmo. Ci sarebbe voluta tanta grandezza. Scegliemmo l’unica strada che potevamo percorrere: dire che erano innocenti, coprire. Non ricordo tanta comprensione, nè tanta solidale vicinananza come quella volta che predicammo il falso”

Altro esempio : l’uccisione dei due militanti missini Mazzola e Girallucci nella sede del partito di Via Zabarella a Padova. L’omicido viene immediatamente rivendicato dalle Brigate Rosse. Ma l’intellighenzia di sinistra non se ne dà per inteso. Ecco cosa dice, sicuramente in buona fede, ma anche con sorprendente e ostinata cecità, un opinion maker del calibro di Giorgio Bocca:

” A me queste Brigate Rosse fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti.”

Sempre nello stesso articolo, intitolato “L’eterna favola delle Brigate Rosse” Bocca fa dell’ironia sulle bandiere rosse con la stella a cinque punte trovate nei covi dei terroristi:

Sarebbe come se Longo, Parri, e gli altri capi della resistenza, appena insediati in un alloggio clandestino, lo avessero decorato con falci e martelli o di simboli di Giustizia e Libertà. E, dovendolo abbandonare, lo avessero lasciato tale e quale, fino al giorno in cui le SS, passando casualmente di lì, lo avessero trovato…Nessun militante di sinistra si comporterebbe per libera scelta in modo da rovesciare tanto ridicolo sulla sinistra”.

Concludo con un ricordo personale, riaffiorato alla mia memoria proprio dalla lettura dell’articolo di Bocca citato da Telese.

In quegli anni a Padova mi capitava di andare a vedere ogni tanto, quando passava per la città con i suoi spettacoli, Dario Fo.


Anche lui, mi ricordo, fece dell’ironia su quei ricami con la stella a cinque punte trovati nelle bandiere rosse requisite nei covi.

” E’ incredibile -disse-  la delicatezza delle abitudini di questi signori: tra una sparatoria e l’altra agucchiano che è un piacere”

Filippo Cusumano


La fortuna dei cattivi maestri

calabresi

A quasi quarant’anni di distanza dall’orrore e dall’insensatezza dei primi delitti delle Brigate Rosse, finalmente una trasmissione televisiva ( lo speciale di Ballarò dedicato al libro di Mario CalabresiSpingendo la notte più in là”) ci racconta quelle vicende dalla parte dei familiari delle vittime .

In studio c’è la figlia di Walter Tobagi, che aveva due anni quando il padre fu ucciso. Adesso ne ha trentadue e parla con compostezza di un dolore che non si è mai sopito.

Ha passato gran parte della sua vita, Benedetta Togagi, a cercare questo padre portatole via così giovane, ha letto i suoi articoli, le sue lettere private, i suoi libri di storia.

A trent’anni di distanza, però, continuano a mancarle i suoi abbracci, le sue carezze, i suoi sorrisi.

Che sicuramente vi furono, ma che lei non può ricordare, perchè il primo ricordo cosciente della sua vita è quello del cadavere del padre ucciso da alcuni giovani della Milano bene che volevano “fare carriera” nel terrorismo, dimostrando che avevano il “fegato” di commettere un omicidio importante ( salvo poi pentirsi e usufruire della legislazione premiale, cavandosela con pochissimi anni di detenzione).

mcalabresiC’è naturalmente Mario Calabresi.

Anche lui aveva due anni quando uccisero il padre.

In studio qualcuno legge le ignobili parole d’odio che ogni giorno Lotta Continua gli dedicava, spingendosi a dire che ormai per lui la sentenza del tribunale del popolo era stata emessa ( come sappiamo poi qualcuno si incaricò di eseguirla, poco importa se prendendo direttive da chi scriveva su quel giornale o semplicemente raccogliendone spontaneamente l’invito)

Il figlio del giudice Alessandrini, anche lui presente in studio, è l’unico che ricorda il padre: aveva otto anni quando lo assassinarono e pochi minuti prima della sua morte lo aveva accompagnato a scuola.

Difficile non immedesimarsi nel dolore di questi giovani, non commuoversi per le loro ferite non ancora rimarginate.

Impossibile non condividere il loro sdegno per la visibilità che in tutti questi anni è stata data agli assassini, che qualcuno ancora si ostina a presentare come i protagonisti di una romantica epopea ( vedi l’ultima sciagurata esternazione di Fanny Ardant sull’eroismo di Renato Curcio).

Il più implacabile e lucido nella sua indignazione è il figlio del giudice Alessandrini.

Fa l’avvocato e da poco ha raggiunto e superato l’età che aveva il padre quando fu ucciso.

L’intervistatore gli fa notare che alcuni degli assassini di cui si sta parlando hanno pagato il loro debito con la giustizia e si sono emendati dei loro delitti dedicandosi a cause nobili.

Flickr imageGli ricorda perfino che uno di loro è stato eletto in parlamento.

Lui risponde, gelido:

“Con quella legge elettorale anche un cavallo avrebbe potuto essere eletto”.