Nel 1912 Marcel Proust scrive all’editore Gaston Gallimard proponendogli la pubblicazione di una parte della Recherche, che a quel tempo non aveva ancora terminato.
Il manoscritto viene affidato ad Andrè Gide. condirettore della prestigiosa rivista che era il fiore all’occhiello della casa editrice, la “Nouvelle Revue Francaise”.
Gide aveva conosciuto Proust circa vent’anni prima, a casa di Gabriel Trarieux, poeta simbolista.
Lo aveva classificato subito come uno snob.
Negli anni successivi, leggendo i suoi articoli su “Le Figaro”, aveva continuato a pensare a lui come ad un mondano dilettante, come ad un letterato di piccolo cabotaggio, di quelli che lo stesso Proust anni dopo avrebbe collocato nel salotto della sua Madame Verdurin.
E’ partendo da questo radicato pregiudizio che Andrè Gide affronta il compito di valutare il manoscritto di Proust. Che respinge.
Con il risultato di costringere l’autore della Recherche a rivolgersi all’editore Bernard Grasset che accetta di pubblicare “Dalla parte di Swann” nel novembre del 1913. Due mesi dopo la pubblicazione dl volume arriva a Proust una lettera di scuse di Gide che incomincia così:
Mio caro Proust Da qualche giorno non lascio più il vostro libro; me ne sazio con diletto, mi ci sprofondo. Ahimè! Perchè deve essermi così doloroso amarlo tanto?..Aver rifiutato questo libro rimarrà il più grave errore della Nouvelle Revue Francaise e ( poichè ho la vergogna di esserne in gran parte responsabile) uno dei rimpianti, dei rimorsi più cocenti della mia vita.
Segue una aperta e quasi incredibile confessione delle modalità con le quali ha esaminato il manoscritto decidendo di scartarlo:
“Non avevo a disposizione che uno solo dei quaderni del vostro libro, che aprii con mano distratta, e la sfortuna volle che la mia attenzione cadesse subito nella tazza di camomilla di pag. 62, poi inciampasse a pag.64 nella frase ( la sola del libro che non so spiegarmi) in cui si parla di una fronte da cui traspaiono le vertebre”
La lettera si chiude con una supplica:
“Non me lo perdonerò mai- ed è soltanto per alleviare un poco il dolore che mi confesso a voi questa mattina- supplicandovi di essere più indulgente con me di quanto sia io stesso”
E’ noto poi come andarono le cose: la Nouvelle Revue Francaise, per il tramite di Gide, offrì a Proust di riscattare il primo volume da Grasset e di pubblicare i volumi successivi.
Da quel momento fino alla morte di Proust, avvenuta nel 1922, tra i due scrittori si intreccia un carteggio di grande intensità, pieno di riflessioni sulla vita e sulla scrittura.
Se ne può prendere visione leggendo il volume “Marcel Proust- Lettere a Andrè Gide” ( casa editrice SE- tascabili classici).
La cosa più interessante del volume è l’appendice che contiene un articolo di Gide apparso nel 1921 sulla Nouvelle Revue.
Ormai definitivamente conquistato dalla Recherche, Gide si lancia in un commento molto impegnativo: nessuno scrittore come lui, dice, ci ha arricchito.
Segue un’immagine che ci descrive meglio di ogni altra la grandezza di Proust.
Leggere Proust, ci spiega Gide, è come, quando si ha la vista debole e si ricevono finalmente in dono degli occhiali.
“Cominciamo a percepire improvvisamente il particolare dove fino a quel momento ci appariva soltanto una massa [….]. Proust è uno il cui sguardo è infinitamente più sottile e più attento del nostro, è uno che ci presta questo sguardo per tutto il tempo che lo leggiamo. […] Grazie a lui noi immaginiamo di avere sperimentato noi stessi quel particolare, lo riconosciamo, lo adottiamo ed è il nostro personale passato che una simile abbondanza viene ad arricchire. I libri di Proust, conclude Gide, agiscono come le sostanze che si versano su “quelle lastre fotografiche semivelate che sono i nostri ricordi”,facendone emergere poco alla volta volti, sorrisi, ricordi che “il tempo aveva trascinato con sè nell’oblio”.
La lettura di quest’articolo, con il suo tono di autorevole e definitiva consacrazione, arriva a Proust come “un bellissimo regalo di Natale fatto ad un bambino ( “sia pure molto vecchio”) o come “un miracoloso uovo di pasqua”.
Ogni frase -scrive Proust a Gide-è stata per me un incanto[…]. Ad ogni riga, mi dicevo: “Non è possibile che mi sia riservato qualcosa di stupendo”. Ma alla riga successiva il mago mi riportava un nuovo dono, e in quale forma! la più bella, la più sapiente, la più naturale che io conosca“.