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A brigante brigante e mezzo ( misteriosa morte di Salvatore Giuliano)

Salvatore GiulianoL’uomo che vedete qui a fianco è il bandito Salvatore Giuliano
L’immagine che vedete qui sotto,è invece un fotogramma del bellissimo film a lui dedicato da Francesco Rosi, “Salvatore Giuliano”.

La scena che rappresenta è quella della misteriosa morte del bandito , avvenuta a Castelvetrano ( PA) nella notte del 5 luglio del 1950.

Ma chi era Salvatore Giuliano?

Nato bel 1922 a Montelepre, figlio di un agricoltore, che, dopo anni di immigrazione negli Stati Uniti, era riuscito a tornare in paese e a comprarsi diversi pezzi di terra, non appena finite le elementari, comincia a dare una mano al padre nella coltivazione di questi terreni.

salvatore giuliano morto
La sua latitanza inizia il 2 settembre del 1943 quando, fermato ad un posto di blocco mentre trasporta due sacchi di frumento caricati su un cavallo, si vede sequestrati cavallo e frumento

Approfittando di un momento di distrazione dei militari che lo hanno fermato, tenta di allontanarsi, ma è raggiunto da due colpi di moschetto.

Nonostante le dolorose fitte al fianco, il giovane pesca un vecchio revolver dalla sua calza destra e fa fuoco.

Il colpo, sparato senza particolare convinzione ( Giuliano, allora, non aveva grossa pratica delle armi, nè era un tiratore scelto) si conficca nel cuore di un carabiniere di 24 anni, che morirà il giorno dopo all’Ospedale Militare di Palermo.

salvatore Giuliano2Salvatore, pur ferito, riesce ad infilarsi in un bosco di canne, scomparendo alla vista degli agenti superstiti che preferiscono non rischiare la vita inseguendolo.

Qualche tempo dopo, nel dicembre dello stesso anno, un battaglione di 800 carabinieri arriva a Montelepre con l’unico scopo di catturarlo.

I militari fermano il padre di Giuliano e lo trascinano, spintonandolo e malmenandolo per tutto il paese.
E’ evidente che lo stanno usando come un’esca.

Salvatore, nascosto nella torre campanaria, assiste alla scena, riconosce il padre e non può fare a meno di intervenire. Spara una scarica di mitra, uccide un carabiniere e ne ferisce gravemente altri due.

Gli sparano da tutte le parti, ma resta illeso e , incredibilmente, riesce ad allontanarsi dal paese.

giulNegli anni successivi diventa il leader indiscusso di un gruppo criminale dedito a rapine e taglieggiamenti.

Dal 1945 le sue imprese acquistano anche una forte coloritura separatistica grazie ai contatti con il Movimento Indipendentista Siciliano (MIS).

Spinto da esponenti dell’intelligence U.S.A. nell’E.V.I.S. (Esercito Volontario per la Indipendenza Siciliana) riceve il grado di colonnello.

Nel 1946, per disinnescare il rischio di una pericolosa eversione, De Gasperi promette ampia autonomia all’isola e promuove un’amnistia.

I capi del Movimento Indipendentista decidono di rientrare nella legalità e di partecipare alle elezioni per il parlamento nazionale.

giuliano-turiddu-turi-salvatoreI reati commessi da Giuliano e dalla sua banda non rientrano, però, tra quelli compresi nell’amnistia.
Il bandito scrive una lettera aperta al capo del Governo proclamandosi il Robin Hood della Sicilia: “Continuerò a togliere ai ricchi per dare ai poveri”.

Nel 1947 Giuliano e la sua banda diventano protagonisti della prima strage dell’Italia repubblicana.

Alcune migliaia di abitanti di San Cipirello, Piana degli Albanesi e San Giuseppe Jato sono riunite a PORTELLA DELLA GINESTRA per le celebrazioni del primo maggio e per festeggiare la vittoria dei partiti di sinistra nelle elezioni regionali del 20 aprile nelle quali la coalizione PSI – PCI aveva conquistato 29 rappresentanti (con il 29% circa dei voti) contro i soli 21 della DC (crollata al 20% circa).

All’improvviso, a pochi secondi dall’inizio della manifestazione, mentre sta parlando il calzolaio Giacomo Schirò, segretario della sezione comunista di San Giuseppe Jato, si sentono alcune raffiche di mitra.

portella delle Ginestre

La folla all’inizio pensa ad un festeggiamento a base di mortaretti, poi vede cadere le prime persone e capisce che sta accadendo ben altro.

Alla fine della mattinata si contano 11 morti ( tra i quali 2 bambini) e 27 feriti.

Il ministro dell’interno Mario Scelba dichiara che non si tratta di un delitto politico.

portella

Solo 4 mesi più tardi si scopre che a sparare è stata la banda Giuliano.
Quest’ultimo, in una lettera del 1949, indirizzata a giornalie polizia, rivendica il motico politico della strage , ma evita di citare mandanti e ispiratori del crimine, nella speranza che questi lo aiutino ad espatriare.
[Si i è parlato a lungo di una strage ordinata a “Turiddu”, attraverso l’intermediazione della mafia, da personaggi politici, agenti governativi ed esponenti dei servizi segreti italiani e americani, ma dai processi che si svolsero sulla vicenda si uscì solo con la condanna degli esecutori della strage; non solo non vennero individuati i mandanti, ma si escluse anche il movente politico].

Giuliano negli anni successivi sfugge alla cattura, grazie alla sua conoscenza del territorio e ad una rete di amicizie e di omertà.

Ma è ormai diventato un personaggio scomodo per i suoi sponsor e mandanti.

Il 5 luglio del 1950 viene ucciso a Castelvetrano in provincia di Trapani nel corso di un conflitto a fuoco con la polizia.

Ma niente è come sembra…

Lasciamo la parola ad un cronista leggendario dell’epoca, Tommaso Besozzi .

Ecco cosa scrive sull’Europeo- sotto il titolo “Di sicuro c’è solo che è morto”– su quel cadavere in canottiera riverso sul selciato di un cortile:

giulianomortovero

“Perchè Giuliano non aveva un soldo addosso?
Perchè portava una semplice canottiera, lui così ambizioso e,a suo modo, elegante?
Perchè non aveva l’orologio al polso, quel grosso cronometro d’oro per il quale aveva una bambinesca affezione e, lo hanno testimoniato in molti, era l’unica cosa che si togliesse coricandosi, la prima che cercasse al risveglio?
C’erano poi altri particolari che alimentavano il dubbio e, apparentemente, con maggiore evidenza: alcune ferite, specie quella sotto l’ascella destra, sembravano tumefatte come se risalissero a qualche tempo prima, altre erano a contorni nitidi e apparivano più fresche.
Due o tre pallottole lo avevano raggiunto al fianco e avevano prodotto quei fori grandi a contorni irregolari tipici dei colpi sparati a bruciapelo; altre erano entrate nella carne lasciando un forellino minuscolo perfettamente rotondo.
Il tessuto della canottiera appariva intriso di sangue dal fianco alla metà della schiena, e sotto quella grossa macchia, non c’erano ferite. Era logico pensare che il CORPO DEL BANDITO ANZICHE’ BOCCONI, FOSSE RIMASTO PER QUALCHE TEMPO IN POSIZIONE SUPINA, PERCHE’ TUTTO QUEL SANGUE DOVEVA ESSERE SGORGATO DALLE FERITE SOTTO L’ASCELLA E CERTAMENTE ERA SCESO, NON POTEVA ESSERE ANDATO IN SU”

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Qualche mese più tardi, nel 1951, Tommaso Besozzi, in un altro numero dell’Europeo dà una risposta alle sue domande. Il tono questa volta è perentorio:

“Salvatore Giuliano è stato ucciso a tradimento, nel sonno; e il suo corpo è stato portato più tardi nel cortile di via Mannone per la messa in scena finale.
Il Capitano Perenze ha sparato su un cadavere”.

Chi è che ha ucciso Giuliano nel sonno?

Secondo alcuni Gaspare Pisciotta, suo cugino, che dormiva quella notte con lui. Ma esiste anche un’altra ipotesi: che a freddare Giuliano sia stato un giovane killer di Cosa Nostra, Luciano Liggio, al quale Pisciotta si sarebbe limitato ad aprire la porta.

Una cosa appare certa, a distanza di anni: il bandito non è stato ucciso nel corso di uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine, è vittima di un delitto su commissione, eseguito con la promessa dell’impunità.

Promessa che poi non viene mantenuta, a causa degli scoop dell’Europeo che smascherano la messa in scena dei carabinieri.
Mentre i carabinieri, finiti nell’occhio del ciclone, cercano di proteggere la clandestinità di Pisciotta, la polizia si mette di traverso e il 5 dicembre 1950 arresta Pisciotta.

Al processo sulla strage di Portella della Ginestra, iniziato a Viterbo il 12 giugno di quell’anno, quando lui era ancora latitante, ammette di aver sparato a “Turiddu”.

Lo fa in un documento affidato al suo avvocato, in cui , tra l’altro c’è scritto:

“Avendo io personalmente concordato con il ministro degli Interni Scelba, Giulianio è stato ucciso da me”

Pochi giorno dopo il colonnello dei carabinieri Luca, appena promosso generale, ammette in un’intervista di essersi servito di Pisciotta per catturare Giuliano, ma non specifica che fu proprio lui a uccidere il cugino.


Pisciotta, fuori di sè, chiede la parola dalla gabbia dell’Assise di Viterbo e lo smentisce.
E’ il 16 aprile del 1951.
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Davanti ad una folla di giornalisti, fa i nomi dei mandanti della strage e racconta per filo e per segno incontri e trattative fra banditi e uomini delle istituzioni, con tanto di promesse di impunità.

“Banditi, mafia e carabinieri eravamo tutti come una cosa sola, come la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo”, urla.

E aggiunge: “Io ho liquidato Giuliano senza alcun vantaggio materiale. Chiedo che Luca venga a deporre:voglio vedere se riuscirà a dimostrare di avermi dato una sola lira dei 50 milioni della taglia.Sono un bandito, signori, ma un bandito onesto!”

Condannato all’ergatolo con altri 11 per la strage di Portella Della Ginetra – la sentenza di primo grado è del maggio 1952- Pisciotta chiede, nel febbraio del 1954, di parlare con un magistrato.

L’allora sostituto procuratore Pietro Scaglione va a trovarlo in carcere. Pisciotta gli comunica la sua decisione di smascherare una volta per tutte i mandanti della strage.
Il magistrato gli dà un appuntamento al giorno successivo, quando tornerà con un cancelliere per verbalizzare il tutto.
La mattina dopo Pisciotta muore nella sua cella all’Ucciardone per una dose di stricnina versatagli da qualcuno nel caffè o, molto più probabilmente, nella medicina che è solito prendere per la tubercolosi.

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Chiudo citando un grandissimo scrittore.

Ecco cosa scrive, nel 1974 nel suo NERO SU NERO:.

“Chi non ricorda la strage di Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un Paese senza verità.
Ne è venuta fuori una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo ai fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere”

“Lo stato- dirà in un’altra successiva circostanza sempre Sciascia- non può processare se stesso”

giulianomorto1[1]

Miccichè: ho ceduto…con fermezza

Prima di partire per Roma, per l’incontro decisivo con Berlusconi, Gianfranco Miccichè, presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, autoproclamatosi campione dell’anticuffarismo, traquillizza i supporter nel suo blog.

Nessun cedimento.

Non accetterà la candidatura di Lombardo, sponsorizzata da Cuffaro. Ha già rinunciato alla propria candidatura, ma indicando in Stefania Prestigiacomo la soluzione di compromesso. Più in là di così non andrà per nessuna ragione al mondo.

Il titolo del post è

IO PROMETTO, FERMEZZA…

Proprio così.Con la virgola a separare il verbo promettere dal sostantivo fermezza e con i tre puntini di sospensione dopo la parola fermezza.

Il testo del post ? Eccolo:

Non solo non ho mollato, ma mi sento più carico che mai.Non lasciate spazio alle delusioni.[…]Comunque vadano le cose, sarò schierato contro il cuffarismo. Dobbiamo prometterci fermezza reciproca! Io prometto.
state tranquilli non mollo!
A stasera.

Come sia andata lo sappiamo.

Ha affrontato Berlusconi a muso duro e …ha ceduto.

Con fermezza, naturalmente!

Cuffaro nel frattempo  se la ride alla grande.

La storia degli sguardi ( Don Giovanni In Sicilia di Brancati)

brancati2.jpgVitaliano Brancati scrive il “Don Giovanni In Sicilia” nel 1940.

Protagonista del romanzo è Giovanni Percolla, un uomo cresciuto nella bambagia, coccolato da tre sorelle.

Timidissimo, è giunto all’età di trentasei anni senza “aver mai baciato una signorina per bene“.
Frequenta, in compenso, le case di tolleranza della città e nei caffè all’aperto, insieme con gli amici di sempre, non fa altro che parlare della Donna .

Le più belle pagine del romanzo sono proprio quelle che descrivono questi discorsi “tra maschi”.

C’è sempre una bella donna che passa, catalizzando su di sè gli sguardi cupi di desiderio degli sfaccendati, e c’è sempre qualcuno che, ad un certo punto, incomincia a dire: “Adesso io vi dico con quella cosa ci farei“, con gli altri che prontamente si accodano a lui in un crescendo di gemiti, di risate, di scurrilità e di sconcezze.

L’esistenza di Giovanni scorre pigra e senza stimoli fino al giorno in cui incontra Ninetta, giovane donna continentale di bell’aspetto che, con suo grandissimo stupore, inizia a guardarlo con ammirazione.

Completamente ammaliato, Giovanni non può più vivere senza pensare a quel vivo “lampo dei suoi occhi”.

Per la prima volta si innamora.

Le sue consuetudini vengono sconvolte da questa passione.

Le tre sorelle lo osservano sgomente: Giovanni ora chiede di farsi il bagno ogni domenica, canta proprio nell’ora in cui era solito far la siesta, respinge tutto ciò che loro amorosamente gli offrono.

Alla fine, nonostante una sempre dichiarata contrarietà all’istituto del matrimonio, che aveva quasi eretto a filosofia di vita, sposa Ninetta.

Accetta quindi un posto di lavoro a Milano.

Lontano da Catania e dalla sua vischiosa routine, diventa un altro uomo, risoluto e dinamico. Si abitua a fare docce fredde ogni mattina, dedica mezz’ora al giorno alla ginnastica. Cambia anche fisicamente: stomaco piatto, mascelle volitive, andatura energica. Conosce molte belle donne, che conquista senza eccessivo sforzo, pur continuando ad amare la moglie.

Quando Ninetta resta incinta, ritorna a Catania.

Tornato nella casa delle sorelle con la moglie, dopo un lauto pranzo, chiede, quasi più per un soprassalto di curiosità che per nostalgia delle antiche consuetudini, di poter schiacciare un sonnellino nella sua vecchia camera da scapolo.

Sdraiatosi con l’intenzione di dormire una mezz’oretta, si risveglia verso le sette di sera.

E’ la metafora di ciò che il libro non descrive, ma lascia largamente intuire: Giovanni, dopo aver violentato se stesso per amore di una donna, fino a diventare un altro uomo, è pronto a ritornare alle antiche pigrizie e alle dolci abitudini di un tempo.

Gustosissimo e ironico, il romanzo condensa in poco più di un centinaio di pagine la storia dell’eterno dilemma che ci affligge: lasciarsi vivere o dare un senso alla propria vita, realizzandosi attraverso il lavoro? Ansioso di essere, oltre che amato, anche ammirato dalla moglie, Giovanni si sforza a lungo di diventare un altro, ma alla fine cede alla sua natura indolente.

Riporto una frase del libro:

“La storia più importante di Catania non è quella dei costumi, del commercio, degli edifici e delle rivolte, ma la storia degli sguardi.

La vita della città è piena di avvenimenti, amori, insulti, solo negli sguardi che corrono fra uomini e donne; nel resto, è povera e noiosa”.