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Ordine del Minculpop: confondere le idee a tutti sul caso De Magistris.

Il  caso De Magistris? Un vero guazzabuglio. Chi ci capisce qualcosa è bravo.

E’ una specie di “tutti contro tutti”, una situazione così aggrovigliata che si fa prima a dar la colpa a tutti i contendenti che a cercare  di capire i torti degli uni e le ragioni degli altri.

Lo fa con la consueta chiarezza Marco Travaglio su Unità di oggi, spiegandoci quali sono i ruoli in campo e come avrebbero dovuto essere giocati.

L’articolo ancora una volta, come spesso accade con gli articoli di Travaglio, ci racconta anche come funziona ( male!) l’informazione in questo paese.

Per malafede, sciatteria, incompetenza giuridica dei giornalisti, per conformismo contagioso.

Ecco l’articolo di M. Travaglio.

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Corriere della sera: “Guerra tra pm”. Repubblica:“Guerra tra pm”. Stampa: “Guerradei pm”. Giornale: “Guerra tra giudici”. Mattino: “Guerra tra procure”. Unità:“Guerra totale tra procure”. Riformista: “Toga contro toga”. Europa: “Guerra civile fra magistrati”.

In attesa del Partito Unico, abbiamo il Giornale Unico.

Tutti a sostenere che Salerno uguale Catanzaro, anche se Salerno indaga su Catanzaro per un obbligo di legge, mentre Catanzaro indaga su Salerno contro la legge (su Salerno è competente Napoli).

Insomma avrebbero torto tutti: De Magistris, i suoi persecutori e chi li ha scovati.

Come scrive su Repubblica il superprocuratore coi baffi, “nessuno si salva”. Anche perché “le inchieste di De Magistris sono state valutate da gip, Riesame e Cassazione: sempre De Magistris ha avuto torto”.

Ma non è vero: delle tre inchieste che han suscitato il putiferio, due – Poseidone e Why Not – sono state scippate al pm dai suoi capi in corso d’opera; la terza – Toghe lucane – è dinanzi al gip con una raffica di richieste di giudizio.

Se poi De Magistris fosse un pm incapace sempre bocciato dai giudici, non si vede perché levargli le indagini anziché lasciarle bocciare dai giudici.

Ma la manovra è chiara: De Magistris “deve” avere torto, e così chi ha le prove che ha ragione.

Nessuno – salvo noi e il Carlo Federico Grosso sulla Stampa – denuncia l’abominio dei pm di Catanzaro che indagano i pmdi Salerno che indagano
su di loro.

Vien da rimpiangere il Minculpop: allora i titoli dei giornali li dettava direttamente il regime.

Ora non ce n’è bisogno: si obbedisce agli ordini ancor prima di riceverli.

Epifani aveva firmato ( le menzogne e le trappole del governo)

Segnalo questo articolo di Conchita de Gregorio, che chiarisce la posizione di Epifani al di là delle costruzioni strumentali che ha voluto darne il governo nella sua ansia, in caso di fallimento della trattativa Alitalia, di avere a portata di mano un capro espiatorio da offrire all’opinione pubblica.
Ovviamente in questa vicenda nessuno è esente da colpe.

Epifani, ad esempio, dovrebbe fare un po’ di autocritica sulla vicenda Air France: doveva fidarsi di chi gli diceva che quell’offerta era buona, tenuto conto delle circostanze e delle condizioni offerte.
Probabilmete Air France sarebbe andata via comunque per via dell’annunciato ostracismo di Berlusconi, ormai prossimo premier, ma un fatto è certo: la rigidità delle parti sindacali ha offerto ai francesi un prestesto formidabile per alzarsi dal tavolo.
Detto questo, devo dire che trovo convincente la posizione di Epifani e corrette le sue proccupazioni per le menzogne e le trappole che si stanno scatenando intorno a questa delicatissima partita.
Waterloo. Caporetto.Titoli senza troppa fantasia, certo: giusto per capirsi. Il sindacato – la Cgil, tra i sindacati – è arrivato alla fine.

Due volte il disastro Alitalia collassa a un passo dalla meta, due volte il dito è puntato contro il sindacato. Sono stati loro, è colpa loro.
Un sentimento diffuso, un senso di estraneità alle storiche forme della battaglia sindacale che contagia ormai anche il cinema, nel cinema i registi di sinistra: nel documentario sulla Thyssen di Calopresti i sindacalisti inzuppano la brioche nel caffellatte mentre la Lega fa reclutamento nelle fabbriche, nel film di Virzì sui call center al difensore dei diritti dei precari attaccano i bigliettini di scherno sulla schiena.

Battaglie di retroguardia, conservatorismo miope.

È notte, ormai. È la notte fra giovedì e venerdì, Cai ha ritirato l’offerta. Guglielmo Epifani arrotola al gomito le maniche della camicia, la cravatta è allentata.
Tiene in mano la lettera datata “Roma, 18 settembre” e indirizzata a Colaninno. Comincia così: «Signor presidente, come d’intesa le confermo la nostra adesione e la nostra firma all’accordo quadro…». Finisce con una firma, appunto: la sua firma.
Epifani aveva firmato, Colaninno sapeva dal giorno prima che lo avrebbe fatto: «Come d’intesa», se lo erano detti.
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«Bisogna stare molto attenti – dice adesso che è davvero tardi con la voce arrochita dalla giornata campale – bisogna davvero evitare di cadere nella trappola di questo governo: è chiaro che a loro faccia comodo dire che siamo stati noi ma non è così. Ecco la lettera, i fatti sono questi. Noi non abbiamo difeso i piloti: abbiamo provato a convincerli.

I due terzi del personale di volo non è rappresentato dalla Cgil. Non si poteva arrivare ad un accordo senza di loro. Lei può fare il giornale senza i giornalisti? Ecco, è così. Poi io credo che le ragioni che hanno portato al fallimento dell’intesa siano più ampie di quel che appare: sulla decisione simultanea e unanime dei componenti della cordata devono aver pesato molti elementi, diverso tipo di pressioni a partire dal quadro catastrofico internazionale per finire a motivi di equilibrio politico. Sia come sia: dev’essere chiaro che i piloti hanno sei o sette rappresentanze diverse, sono una somma di corporazioni. C’è stato un tentativo di mettere all’angolo la Cgil che è passato da lì. La Fiat dell’80 non c’entra niente, semmai qui è il contrario».

Sia come sia, Epifani, lei è ritratto oggi come l’esecutore testamentario di un sindacato in agonia: un fatto culturale prima che tecnico. La Cgil frena, ferma, blocca e oltretutto non rappresenta più i giovani, i lavoratori precari che temono di associarsi perché ricattati dalla “flessibilità”: il sindacato così com’è non è più di questo tempo.

«È certamente questo il messaggio che si vuole far passare. Questo governo cerca il nostro discredito e non c’è dubbio che lo faccia in un clima generale in cui si prova a fare a meno del sindacato. Però vede: è proprio a questo tentativo che dobbiamo fare argine e dobbiamo farlo partendo dai fatti. La Lega nelle fabbriche, lei dice: benissimo. Però nelle fabbriche votano Lega ma sono iscritti alla Fiom. Non posso dire tutti ma molti, moltissimi. Allora è un altro il problema: è la cerniera fra il sindacato e la politica, fra il sindacato e il partito che si è indebolita. I nostri tassi d’iscrizione sono sempre altissimi, molto più alti che altrove in Europa. Non c’è più un prototipo di lavoratore, la realtà è variegata. Certo: un tempo si arrivava al sindacato attraverso la politica. Certo, le generazioni più giovani sono sottoposte al ricatto del datore di lavoro in nome della flessibilità ed hanno paura di aderire al sindacato. I precari non si iscrivono, è vero: sono spaventati.
La campagna ostile al sindacalismo è stata potentissima: è la politica che deve battersi contro questo tentativo di ostracismo».
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E non lo fa, sottintende Epifani: non lo fa abbastanza. La “cerniera” fra sindacato e partiti di sinistra: quella si è sciupata.
«Sono convinto che su Alitalia alla fine Berlusconi ricorrerà all’ennesimo colpo di teatro. È una gestione del paese fatta di continui colpi di scena. Non è così che si tutelano i diritti, non così si conserva la democrazia. Noi abbiamo agito come sempre con senso di responsabilità e mi creda, questa volta in specie con una disponibilità estrema. Prima di suonare il de profundis del sindacato bisognerebbe guardarsi attorno: abbiamo affrontato la questione di cinquemila esuberi in Telecom, sei o settemila saranno quelli di Alitalia, quattromila quelli di Merloni. Quando si parla di quindicimila lavoratori bisogna contare da uno a quindicimila e soffermarsi a pensare che ogni numero è una persona. Ci vogliono ore a contare: uno sono io, uno è lei, provi a immaginare. Altro che Caporetto. Siamo nel pieno della guerra e dobbiamo crederci, dobbiamo restare fermi qui non arretrare di un passo davanti all’offensiva populista. Dobbiamo vincere».
Concita De Gregorio ( L’Unità)

I “servi felici” del Berlusca ( quando l’adulazione non teme il ridicolo)

Rushmore_icona.JPGLeggo sull’Unità di oggi quello che scrive Marco Travaglio sui famigli del premier, cioè sui giornalisti che non sanno trattenersi dall’incensarlo e dal magnificarne la bella e cara persona ad ogni piè sospinto e ad ogni stormir di fronda.

Mussolini una volta, leggendo in una cronaca di un suo viaggio a Catania una frase di incredibile piaggeria( “Perfino l’Etna si sentiva intimidito al Suo Cospetto” ) si arrabbiò con il cronista che, adulandolo in quel modo, era solo riuscito a renderlo ridicolo.

Mi chiedo che riflessioni fa in questi giorni Silvio leggendo le stupidaggini che scrivono su di lui quelli che Marco Travaglio definisce i suoi “servi felici”.

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Ora d’aria
l’Unità, 30 luglio 2008

Quando Il Giornale era una cosa seria, cioè quando lo dirigeva Montanelli, vi era severamente vietato criticare la Rai per evitare che qualcuno potesse pensare che la critica era un favore all’editore Berlusconi, proprietario della Fininvest.

Me lo raccontò Giovanni Arpino.

Poi, nei primi anni 90, perché fosse ancor più chiaro chi comandava al Giornale tra lui e l’editore, il vecchio Indro ingaggiò come critico televisivo Sergio Saviane, che non perdeva occasione di spernacchiare il Berlusca e il suo mondo.

Sono trascorsi appena 15 anni, ma non sono stati vani: siamo nell’èra dei servi felici, abbiamo abolito il pudore e perduto il senso della vergogna. Basta leggere, sul fu Giornale, le cronache al seguito del Cavalier Padrone.

Passa il lodo Alfano, titolo a tutta prima pagina: “Sia lodo, fine della guerra”. Segue commento non firmato, dunque attribuibile al direttore, Mario Appelius Giordano: “La bella estate di Silvio”. Fior da fiore: “Adesso non ci sono più nuvole. Le foto di Villa Certosa immortalano un momento di serenità privata: per il compleanno della moglie Veronica, Berlusconi ha radunato tutta la famiglia in Sardegna. Ci sono i figli, i nipotini, i giochi, le gite in barca, piccoli scampoli di ordinario lusso e straordinaria felicità… Quest’immagine di serenità privata diventa segno e simbolo della serenità politica… Napoli è stata ripulita dai rifiuti… la Finanziaria sta per essere approvata… l’immunità per le alte cariche, come ciliegina sulla torta (di compleanno) mette finalmente il governo al riparo dall’assalto giustizialista… Ronaldinho al Milan? Toh, è arrivato pure quello. E allora, mano nella mano con Veronica, non resta che gustarsi un po’ di relax come si conviene.

E’ la bella estate di Silvio, non c’è niente da fare… La sinistra allo sbando deve rassegnarsi: nel centrodestra non è più tempo di Casini (battuta, ndr). Questo è il tempo della fedeltà e della serenità, come testimoniano le foto con Veronica e la pace con Bossi…”.

Era dai tempi dei dispacci della Stefani sulle virili vacanze del Duce e donna Rachele a Rocca delle Caminate, che non si leggeva niente del genere. Un’intera pagina fotografica gentilmente offerta da “Chi” (altro house organ della ditta) ritrae il ducetto “rilassato e innamorato” con le sue “tinte turchesi” nella “nuova Camp David” di Villa Certosa, là dove solo un anno fa pascolavano sulle sue ginocchia cinque prosperose ragazze, subito trasformate in altrettante “attiviste di Forza Italia” impegnate in un simposio di alta politica. Quest’anno invece la Veronica ha piantato le tende alle costole dell’esuberante consorte e non lo molla un istante (le ampie maniche delle rispettive camicie nascondono le manette ai polsi dei due coniugi).

Nemmeno quando lui tenta la fuga a Portofino, in una delle tante ville. Anche qui, stuolo di fotografi al seguito e cronista da riporto del Giornale: un tale Vincenzo La Manna, che dev’essere giovanissimo, ma ha già capito come gira il mondo.

Il suo paginone di lunedì sul Giornale, dal sobrio titolo “Love in Portofino”, è un piccolo capolavoro: “In camicia blu scuro e pantaloni abbinati, Berlusconi si presenta poco dopo le 9 di sera, sorridente, al centro della splendida località marina. E con la mano sempre intrecciata a quella della moglie, raggiunge il porticciolo. Per dirigersi, guardato a vista dalle guardie del corpo in tenuta estiva (ecco: niente plaid, cuffie di lana, pelli di foca o cose del genere, ndr) verso lo yacht ‘Besame’ di Marina”. Da non confondere con lo yacht “Suegno”, che invece è di Piersilvio detto Dudi. Segue cena in uno “storico ristorante”, allietato dalle note di “Carlo, detto il Chitarrino”: un Apicella locale. “Alla famiglia Berlusconi si aggregano il giornalista Guido Bagatta e la compagna”, per elevare ulteriormente il livello della conversazione. “Moscardini fritti e spiedini alla griglia, un tocco d’insalata russa”, e poi “branzino bollito” in onore di Bondi. Infine “orata al forno con olive nere e sorbetto shakerato alle fragole”. Poi “via in discoteca per alcune ore”.

L’indomani, sempre pedinato dal solerte La Manna, il Cainano “riceve in giardino la visita di Marina e Piersilvio, che lasciano per un po’ i loro yacht attraccati in rada”. Si spera, non incustoditi. Sarà così, minaccia il cronista, per tutta l’estate “e poco importa se il settimanale ‘Chi’ riesce a immortalare i suoi momenti di svago e intimità”. Ecco: Lui, sempre così ritroso, non ama finire sui giornali, ma quei comunisti molesti di “Chi” lo immortalano lo stesso. E Lui, da vero liberale, continua a stipendiarli.

Torna in mente quel che scrisse Montanelli, sulla Voce, il 26 novembre ’94: “Dobbiamo prepararci a presentare le nostre scuse a Emilio Fede. L’abbiamo sempre dipinto come un leccapiedi, anzi come l’archetipo di questa giullaresca fauna, con l’aggravante del gaudio. Spesso i leccapiedi, dopo aver leccato, e quando il padrone non li vede, fanno la faccia schifata e diventano malmostosi. Fede, no. Assolta la bisogna, ne sorride e se ne estasia, da oco giulivo. Ma temo che di qui a un po’ dovremo ricrederci sul suo conto, rimpiangere i suoi interventi e additarli a modello di obiettività e di moderazione… Oggi, per instaurare un regime, non c’è più bisogno di una marcia su Roma né di un incendio del Reichstag, né di un golpe sul palazzo d’Inverno. Bastano i cosiddetti mezzi di comunicazione di massa: e fra di essi, sovrana e irresistibile, la televisione. (…) Il risultato è scontato: il sudario di conformismo e di menzogne che, senza bisogno di ricorso a leggi speciali, calerà su questo Paese riducendolo sempre più a una telenovela di borgatari e avviandolo a un risveglio in cui siamo ben contenti di sapere che non faremo in tempo a trovarci coinvolti”.

Basta con le intercettazioni! L’esultanza dei furbetti.

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Basta con le intercettazioni.

Silvio si lancia a testa bassa nell’ennesima battaglia pro domo sua.

Difficile pensare che da una mossa come questa possano scaturire vantaggi per l’efficienza e soprattutto l’efficacia del sistema giudiziario, uno dei più inadeguati del mondo.

Sul tema propongo(v. sotto)  un articolo, che mi sembra molto istruttivo, di Marco Travaglio.

Le ipotesi sulle conseguenze di quanto annunciato dal Premier sono a dir poco inquietanti.

Impossibile che diventino realtà ( anche se ai miracoli e ..agli incubi l’uomo ci ha abituato)

Aspettiamoci, comunque,  molti andirivieni: fughe in avanti, marce all’indietro.

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Già ieri l’ex ministro della Giustizia Castelli avanzava le sue perplessità sull’esclusione dello strumento delle intercettazioni per i reati di corruzione e concussione.

Adduce motivi di tipo elettoralistico ( “la gente non capirebbe “) ,ma è già qualcosa.

Sicuramente sul tema le varie “caste” possono cominciare a fare il tifo perchè vada in onda la prima versione del pronunciamento berlusconiano.

Furbetti del quartierino, bancarottieri fraudolenti, complottatori di Moggiopoli, potenti abituati al ricatto e alla corruzione sanno per chi votare alle prossime elezioni ( ma secondo me sapevano bene anche …per chi votare a quelle del 13-14 aprile scorsi).

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La scomparsa dei reati

Marco Travaglio

Ieri, prima di accusare un lieve malore, dunque ancora nel pieno possesso delle facoltà psicofisiche, il presidente del Consiglio ha annunciato che saranno vietate le intercettazioni, fuorché per «criminalità organizzata, mafia, camorra e terrorismo».

E le poche che si potranno ancora disporre non potranno essere pubblicate.

Per i trasgressori ­ magistrati, agenti di polizia giudiziaria e giornalisti ­ «saranno previsti 5 anni di carcere».
Una pena più alta del falso in bilancio non ancora depenalizzato, per dire.
E poi «una forte penalizzazione economica per gli editori che le pubblicano» (per esempio per suo fratello Paolo, il cui Giornale pubblicò una telefonata top secret e priva di rilevanza penale tra Fassino e Consorte).
L’annuncio non deve stupire: è scritto nero su bianco nel programma elettorale del Popolo della Libertà provvisoria.
Ma, come al solito, era stato sottovalutato dai più. Soprattutto dal Pd e dall’Anm, protagonisti di un curioso «dialogo» con l’uomo, anzi l’ometto che si propone di sfasciare definitivamente quel poco che resta del sistema giudiziario. Lo stesso ometto che contemporaneamente annuncia «il ritorno dello Stato», la «tolleranza zero» e la «certezza della pena», subito creduto ed elogiato come statista dai nove decimi della stampa italiana.
Sempreché non sia stato frainteso o non abbia parlato a titolo personale, basta prendere alla lettera l’annuncio del premier per prevedere le conseguenze della nuova legge.
Qualche esempio.
Tizio viene ammazzato. Nessuna traccia dell’assassino. Il giudice ordina di controllare i telefoni di parenti, amici e colleghi di lavoro, alla ricerca di un indizio. Ma l’omicidio (salvo che a commetterlo sia un mafioso, un camorrista o un terrorista) non è compreso tra i reati per cui sarà ancora lecito intercettare: dunque resterà insoluto, salvo che l’assassino si presenti spontaneamente a confessare. Rapina in banca: una telecamera riprende uno dei rapinatori. Gl’inquirenti riconoscono dalle immagini sfuocate uno dei rapinatori e gl’intercettano il telefono per accertarsi che sia proprio lui e individuarne i complici. Questo, oggi. Domani, non essendo le rapine reati di criminalità organizzata, niente intercettazioni: impossibile scoprire i malviventi, che la faranno franca, né tantomeno recuperare il bottino.
Un imprenditore viene sequestrato. Le forze dell’ordine, oggi, mettono sotto controllo il telefono di casa per risalire ­ dalle chiamate per la richiesta di riscatto – alle utenze dei sequestratori, pedinarli, scoprire il covo e liberare l’ostaggio. Domani niente intercettazioni e niente colpevoli. Ai familiari non resterà che pagare e sperare che il congiunto venga restituito tutto intero.
Un misterioso molestatore perseguita una ragazza con telefonate oscene, o minaccia e insulta un suo nemico: gl’investigatori controllano il telefono della vittima e risalgono al disturbatore. Oggi. In futuro anche questo sarà impossibile.
Una donna, picchiata e violentata dall’ex compagno, trova la forza di sporgere denuncia. Ma mancano le prove. Per trovarle, serve intercettare l’uomo per verificarne gli spostamenti. Con la nuova legge, niente intercettazioni e niente prove. Circa il 90% delle intercettazioni, in Italia, riguardano traffici di droga, molto spesso a opera di bande di italiani o di immigrati non affiliati alla criminalità organizzata. Bene, anzi male: non saranno più intercettabili, così lo Stato rinuncia a sgominare centinaia di pericolose gang e a sequestrare enormi quantità di stupefacenti.
Anche per rintracciare i latitanti, sfuggiti alla giustizia dopo condanne per omicidio, rapina, traffico d’armi o di droga ecc., si intercettano i telefoni di parenti, amici e conoscenti per verificare chi li ospiti o li aiuti: salvo che si tratti di mafiosi o terroristi, la nuova legge impedirà di acciuffarli.
Poi, naturalmente, ci sono i reati finanziari, fiscali e contro la Pubblica amministrazione.
Che poi sono quelli che Berlusconi, avendone commessi parecchi ed essendo tuttora imputato per tutte e tre le categorie penali, spera di rendere impossibili da scoprire e da punire (magari con una norma transitoria che renda inutilizzabili le intercettazioni sin qui realizzate, tipo quella tra lui e Saccà per cui è imputato a Napoli per corruzione). Siccome nessuno li confessa spontaneamente, l’unico modo per smascherarli è intercettare chi è sospettato di commetterli. D’ora in poi sarà proibito: non commetterli, ma scoprirli.
Così i miliardi di euro che ora lo Stato recupera ogni anno dai processi per bancarotta, falso in bilancio, corruzione, concussione, frode fiscale, aggiotaggio (solo dalle intercettazioni dei furbetti del quartierino, la Procura di Milano e Clementina Forleo hanno recuperato quasi 1 miliardo di euro) resteranno nelle tasche dei criminali.
Chissà che ne dice Robin Hood Tremonti.

Cupio dissolvi nel Pd, perseveranza diabolica nella Sinistra Arcobaleno: chi esagera?

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Scrive Maria Novella Oppo sull‘Unità:

L’ALTRA SERA A TV7 PIERO FASSINO, dopo che Miriam Mafai
aveva detto di non aver ancora capito la logica dell’indulto, si
è detto d’accordo con lei.

E molti altri sono i casi in cui i massimi dirigenti della sinistra, partecipando ai dibattiti televisivi, ammettono i propri errori.

Tutti, tranne alcuni (pochissimi!) della sinistra cosiddetta radicale, che fanno l’autocritica solo per conto terzi e ripetono gli stessi argomenti che hanno spinto gli elettori a non votarli.

Alcuni poi, nel vasto campo del centrosinistra, sembrano spingersi fin quasi ad abbracciare le tesi degli avversari, che, avendo vinto, dovrebbero avere ragione per forza.

Ci dev’essere qualcosa di esagerato in questa sorta di cupio dissolvi, mentre i signori della destra, quando perdono, hanno una sola tesi: «Abbiamo sbagliato nella comunicazione».

Mai che ammettano di aver fatto leggi vergognose, di aver infierito sui poveri e favorito la
mafia.

Tutte cose che si possono leggere solo postume, sui libri di Storia, che infatti, quando vincono, vogliono subito riscrivere.